RACCONTI DI NICOLA PICCHIONE  
 


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Il mio Natale del 48

Nicola Picchione

 



 

            Il Natale del 48 mi sembrò del tutto eguale ai precedenti e, nella mia mente di ragazzo, a come sarebbero stati i successivi. Erano accaduti quell' anno eventi importanti. C' era stato l'attentato a Togliatti e Bartali aveva vinto il giro di Francia. C' erano state elezioni vinte dalla DC e il Fronte popolare era stato battuto. Un anno da ricordare, insomma. A Natale c'era ancora sui muri delle case qualche brandello di manifesto elettorale: ricordo quello col viso di Garibaldi, simbolo dei socialisti e comunisti. Conservavo ancora nel libro di scuola una cartolina dove era raffigurato il volto di Garibaldi ma capovolgendolo appariva un Baffone minaccioso. Tutto questo era lontano dai miei interessi di ragazzo anche se i discorsi dei grandi sulla politica erano frequenti e c'era molta passione: lo scontro di idee tra democristiani e comunisti era forte. Noi ragazzi, però, continuavamo a vivere i nostri giorni pensando ad altro. Anche quando ricordavamo i tempi della guerra, il passaggio prima dei tedeschi poi degli americani, ne parlavamo come di fatti ormai lontani, anche se in giro si vedeva ancora qualche povero contadino indossare qualche giubbotto o pantaloni da militare o coprirsi il capo con la bustina grigioverde.
            C'era la neve che in quei tempi non mancava mai a Bonefro nel periodo di Natale. Da piccolo non si sente il freddo. Mia nonna mi diceva: " Non mi posso fidare di te se ti chiedo se fuori è freddo; rispondi sempre di no". Era il sangue di ragazzo che mi proteggeva ma anche gli scuri e pesanti pantaloni alla zuava che erano molto adatti a proteggere dal freddo: scendevano sotto il ginocchio dove venivano legati sui calzettoni in parte ricadendo larghi in modo da mascherare la parte legata alla gamba. Avrei continuato ad indossarli d'inverno anche negli anni successivi sino al ginnasio quando iniziai a usare- all'inizio con disagio- quelli lunghi. Quel Natale portavo anche una maglia azzurra che mi piaceva molto, col collo alto che si ripiegava. Noi ragazzi di solito non andavamo in giro con giacche o cappotti, ci coprivano le maglie. Sotto quella azzurra avevo una maglia di lana grezza di pecora che i primi giorni dava fastidio alla pelle sino a quando non ci si abituava. Mia madre era molto brava a confezionarmi pantaloni e camicie con la vecchia Singer ma non era altrettanto brava  con i ferri della lana. Le maglie me le faceva una magliaia che abitava vicino casa nostra. Mi piaceva molto quella maglia azzurra col collo alto e ricordo che in quei giorni passò davanti casa una ragazzina dagli occhi chiari che mi piaceva ed abitava lontano da noi e fui contento che mi vedesse con quella maglia. Avevo un berretto da sciatore a quadretti bianchi e neri che evitavo di portare: il sarto aveva fatto una visiera troppo lunga che non mi piaceva. Forse fu da allora che non ho mai portato copricapo.
                La neve non costituiva un problema per noi ragazzi, anzi era una festa. Giocavamo a palle, quando si scioglieva piazzavamo le nostre barchette- ma bastava anche un piccolo pezzo di legno- sul rivolo d'acqua che scorreva lungo il marciapiede o facevamo con la neve piccole dighe per formare un ristagno d'acqua nel quale giocare. Ci scaldavamo le mani col "tirituppolo", mio infelice tentativo di italianizzare il nome dialettale di quel piccolo strumento che ricavavamo da un ramo di sambuco privandolo del midollo e formando un  breve cilindro vuoto nel quale spingevamo con una bacchetta che fungeva da pistone una pallottolina di stoppa che rubavamo da qualche vecchia coperta imbottita. Spingendo  fortemente col petto quel piccolo pistone sparavamo la pallottolina che avevamo ammorbidito masticandola che finiva nelle mani chiuse alla estremità del cilindro. I colpi, ripetuti,  scaldavano le mani.
            Quella mattina andai in chiesa col mio amico Tonino. Noi due giravamo sempre insieme. Non eravamo molto praticanti la chiesa e quando l'estate precedente il prete ci aveva portato in sagrestia e fatta indossare una veste bianca per seguire la processione, avevamo approfittato della sua assenza per toglierci di dosso quell'abito  da chierichetto e fuggire. La mattina del Natale, però, eravamo a messa. La chiesa era affollata, gli uomini da una parte e le donne da un'altra. Era fredda la chiesa, senza riscaldamento come erano tutti i locali pubblici comprese le scuole dove qualcuno si portava d'inverno uno scaldino. Il vecchio arciprete don Domenico tenne un breve discorso sul Natale e su Gesù Bambino venuto a salvarci dal peccato e morire per noi. Alla fine della messa si cantava "Tu scendi dalle stelle". La chiamavamo "La pargoletta" senza capire il significato di questo nome. Il coro  era iniziato dalle suore che erano venute dall' Orfanotrofio in fondo a Via Roma, con le orfanelle in fila. Alle loro voci si associavano quelle dei fedeli. Erano quasi solo le donne a cantare. Il canto si diffondeva e saliva di tono fondendosi col suono dell' organo che il sarto Antonio Picchione suonava ad orecchio ma abilmente. Tutta la chiesa si riempiva di quelle note  semplici e melodiose. Le voci sembravano soffermarsi sulle note che ripetevano in crescendo, accorate: "e vieni in una grotta al freddo e al gelo". Mi sentivo commosso al pensiero del Bambino che pativa il freddo e quando- finita la messa-passavo davanti al presepe preparato in un angolo della chiesa mi sentivo in colpa a vedere- io coperto dalle maglie e dai caldi pantaloni alla zuava- quel bambinello con le braccia allargate e il corpo nudo nella piccola culla d'argilla. Ma, pensavo, il presepe celebra una nascita importante e il bambinello crescerà. Insomma il senso di colpa durava poco, certamente meno di quello che provavo il venerdì santo davanti al corpo di Gesù ( e la statua rappresentava realisticamente il corpo disteso cosparso di ferite) che veniva deposto- l'incontro tra Madre e Figlio avveniva nel piazzale del convento- ai piedi di una Madonna col cuore trafitto da tante spade ed uno sguardo rivolto non verso il Figlio ma in alto mentre il coro confessava le proprie colpe- quelle di tutti noi, compreso me- :"siamo stati molto ingrati, Gesù mio perdòn, pietà". Allora mi sentivo addolorato e colpevole non so di che e a vedere la Madonna col cuore trafitto dalle spade che si ergevano minacciose il mio dolore e il mio senso di colpa aumentavano. Davanti al presepe, invece, quel senso di pietà per il Bambinello nudo durava poco. Uscivo dalla chiesa col cuore leggero, passavo davanti al monumento che allora era solo un alto piedistallo senza statua (quella originale, di bronzo, era servita per fare cannoni per la seconda Guerra mondiale), inevitabilmente l'occhio mi cadeva sul mio nome tra i caduti, visto che coincideva con quello di mio nonno; attraversavo la piazza felice per la gente che passeggiava vestita a festa e che si scambiava gli auguri. Felice soprattutto per l' aria di festa che mi sembrava rallegrasse tutto il paese. Erano tanti i bonefrani, quell' anno, quasi seimila. Affamati di pane e lavoro, già pronti appena si presentasse l'occasione a prendere il volo. Ma quel Natale del 48 il volo era ancora lontano ed era riservato ai passerotti che  mi sembravano anch'essi a festa a giudicare dai passettini e rapidi saltelli sulla neve, spinti dalla fame che faceva vincere la paura.
            Tornato a casa, mi aspettavano vari compiti: dovevo portare in un piatto le zeppole fritte a casa di qualche amico di famiglia. Mia madre copriva il piatto con un tovagliolo e si raccomandava di non scoprire il contenuto come se tutti quelli che mi avrebbero visto non sapessero che cosa conteneva il piatto che - altra inutile raccomandazione- dovevo riportare a casa.
            Poi dovevo andare da qualche parente per gli auguri. La formula era semplice: entrando (non ti dimenticare di togliere la neve dalle scarpe, si raccomandava mia madre) pronunciavi la frase: "Buongiorno e buon Natale". Ti facevano sedere e ti davano un mandarino o qualche fico secco. Non avevo molti parenti. C'era lo zio di mio padre con la sua famiglia; poi c'era la zia (sempre di mio padre) con le sue due giovani figlie. Il marito era a Detroit, lavorava da Ford. Non avevo veri zii (sia mia madre che mio padre erano figli unici) e confesso che invidiavo i miei compagni che avevano i loro "zizì". Andavo, però, volentieri da quella zia dove le giovani figlie mi trattavano come un piccolo fratello  e riuscivano a giocare con me. Eppoi, dalla loro finestra vedevo i giovani che sciavano sulla collina di fronte in una breve discesa senza alberi quasi dovessero arrivare al vallone Varco.  Ovviamente a Natale non c'erano sciatori. Avevo visto un giorno mio padre fare in bottega un paio di sci per qualcuno (ricordo che aveva una forma per piegare alla punta il legno degli sci che chiamava faggio evaporato) ed ero orgoglioso che forse qualcuno sciava con quegli sci fatti dal mio papà. Io lo chiamavo così, come gli altri figli di artigiani, mentre i miei compagni figli di contadini chiamavano "tata" il loro padre. Sottili ma significative differenze tra le classi sociali.
           Dopo aver svolto quei compiti sono tornato in piazza che era ancora affollata. Gruppetti di persone parlavano, si scambiavano gli auguri. I più anziani portavano ancora il mantello a ruota, nero, ampio, tenuto al collo da una catenella con una fibbia. Anche il cappello era scuro. Vestiti in quel modo mi sembravano grandi come statue e molto seri. Somigliavano a certi briganti che avevo visto su un libro. Questi gruppetti si dileguavano per incanto appena la campana annunciava il mezzogiorno. "Vuoi favorire" "No, grazie, buon appetito!" "Altrettanto, grazie". Ognuno tornava a casa e la piazza rimaneva all' improvviso vuota, bianca e silenziosa. Almeno per poco. Poi sarebbero usciti di nuovo chi a parlare passeggiando chi a riempire il bar giocando a carte.
            Nessuno aveva mai sentito parlare di Babbo Natale e nessuno sapeva che cosa fosse l'albero di Natale. Non esistevano insegne luminose e i lampioni consistevano in cavi tesi da un lato all' altro della strada molto distanziati tra loro, sorreggenti un piccolo lampione che oscillava al vento  con una lampadina che emetteva una debole luce giallognola. A casa di Tonino c'era un piccolo presepe. Avevamo fatto da noi- lui, i suoi due fratelli più grandi e gli amici- le piccole figure andando a prendere la creta verso il Ciciliano. Avevamo preso il muschio, qualche pezzo di legno e un pò di paglia rubata all' asino che era nella stalla dietro la cucina.
            A tavola c'era sempre qualcosa di buono. A Natale anche i poveri riuscivano a rimediare un pasto sostanzioso, almeno la pasta col ragù al posto della solita pizza di granturco. Quasi tutti allevavano polli e per Natale la strage degli innocenti era grande. A me la carne non piaceva. Mia madre insisteva perché mangiassi un pezzo di pollo immerso nel sugo rosso ma preferivo limitarmi a un pezzo di pane imbevuto in quel sugo.  Poi vedevo mio padre pulire con gusto gli ossicini del pollo e mi veniva voglia di provare. Mangiavo un'ala con grande soddisfazione dei miei. Non c'era il panettone ma le zeppole fritte che mi piacevano scaldate alla brace. C' erano anche le caragnole cosparse di miele. Tutti avevamo un camino col  ceppo di Natale magari piccolino. Il camino era non solo l'unica fonte di calore ma era il luogo attrezzato per cucinare. La catena centrale che pendeva dall'alto serviva per la grossa pentola di rame- con la parete esterna nera di fuliggine- per cuocere la pasta; treppiedi di varie dimensioni servivano per i tegami del sugo o di altri ingredienti. Mio padre mi aveva costruito un piccolo banchettino che tenevo vicino al fuoco e che allontanavo solo quando mia madre doveva cucinare. Al centro della cucina c'era anche il braciere di ottone nel suo piede di legno. Sul tavolo c'era la radio che mio padre aveva comprato a rate, una Philips che è ancora nella vecchia casa e ostenta il marchio di prodotto autarchico. Ricordo che col maltempo era meglio spegnerla. "Fa troppe scariche", diceva rassegnato mio padre.
            Il pomeriggio di Natale era tutto per noi ragazzi: bastava superare le raccomandazioni di non prendere freddo ed eravamo pronti a inventarci qualcosa. La sera ci si riuniva a casa di qualche amico, grandi e piccoli. Si giocava a tombola. Ognuno di noi con la sua cartella e il mucchietto di ceci o fagioli per segnare i numeri. C'era il rischio che andasse via la corrente e si rimanesse al buio. Non era un problema. Era pronta la lucerna di creta con l'olio e lo stoppino e bastava per andare avanti. E poi c'era Vincenzo l'elettricista che correva nella cabina che era in piazza e riarmava la valvola interrotta da qualche scarica elettrica. A meno che il guasto non fosse più serio e una bufera di neve non avesse interrotto qualche filo in campagna. Allora la luce poteva mancare per qualche giorno e a nulla serviva il gridare dei ragazzi al cinema: "Luce, luce!". Bisognava rassegnarsi e andare a letto anche perché non si poteva consumare molto olio per la lucerna e anche la candela aveva il suo costo. Quel Natale del 48 la luce non andò via e potemmo rimanere insieme a giocare a tombola. La fine di una festa mi metteva molta tristezza quando ero ragazzo, pensando che sarebbero passati mesi per un' altra festa. Per Natale era diverso: le scuole rimanevano chiuse a lungo e poco dopo ci sarebbe stato l' ultimo dell' anno e il principio del nuovo anno con una nuova folla in piazza a scambiare gli auguri. Poi sarebbe arrivata la befana con i soliti mandarini e qualche fico secco.

 

            Così passò il Natale del 48. Uno come tutti gli altri, avrei giurato. Non era così. Quello fu l'ultimo Natale della mia infanzia prima che si aprisse il guscio. Già il successivo fu diverso: ero partito per studiare, mi ero allontanato per la prima volta dal nido. Per Natale tornavo in vacanze col treno che riportava a casa tutti i ragazzi dei paesi, quelli come me alla prima esperienza con la media e i più grandi. Nessun paese aveva le medie che erano ancora riservate a pochi privilegiati. Quei vagoni con i sedili di legno duri e freddi,  trainati da una locomotiva sbuffante pennacchi ora neri di carbone ora grigi di vapore, erano pieni di una gioventù urlante i più diversi dialetti. Ognuno a prendere in giro gli altri, ognuno ad esaltare il proprio paese. La locomotiva partiva da Campobasso, arrancava nella neve lenta come se temesse di non trovare i binari. Ad ogni stazione scendeva un gruppetto. Ripalimosani, S. Elia, Campolieto, Ripabottoni: avevo imparato a memoria i nomi di quei paesi dove non ero mai stato e che mi sembravano tanto lontani dal mio. Alla stazione di Bonefro un vecchio pullman blu dai vetri opachi di gelo aspettava per riportare me e qualche altro. Eravamo pochi ad avere il privilegio di studiare. Pochi anche a viaggiare e il pullman rimaneva mezzo vuoto e freddo. Arrancava per la salita dei Montazzoni tra la neve col vecchio autista di S. Croce dalla facciata segnata dal vaiolo e con zia Maria, la moglie del padrone del pullman che passava a farsi pagare evitando di staccare il biglietto. Ogni tanto battevo mani e piedi per scaldarli poi scendevo in piazza e mi affrettavo a percorrere via Marconi a passo rapido come se tutti stessero a guardare me. Rivedevo i miei vecchi compagni di infanzia, mi ritrovavo di nuovo con loro per strada. Ma solo per i pochi giorni delle vacanze. Ormai ero uno studente, categoria privilegiata. Questo non riduceva il mio dispiacere di essere andato via da Bonefro, di sentirmi un poco straniero di fronte ai miei compagni. Non sapevo se avrei continuato ad essere studente. Mio padre aveva ceduto alle insistenze del maestro e aveva detto a mia madre: "Vediamo di fargli fare almeno le medie, le scuole servono sempre, poi si vedrà".
        Il Natale dell'anno successivo vide un altro passo nella mia vita: eravamo soli, mia madre ed io. Mio padre era partito per il Canada. Mia madre aveva gli occhi rossi, mi spiegò con la lettera tra le mani che mio padre non aveva ancora trovato lavoro e gli dispiaceva di non poterci mandare danaro. Mi sentii un pò la causa di quel dolore, impotente e coinvolto, deciso solo a ripagare con lo studio.
        Ecco perché ricordo il Natale del 48, l'ultimo della mia infanzia ancora serena. Poi tutto fu diverso. Ogni anno un passo nuovo nel mare della vita e del mondo, l'infanzia sempre più lontana. Allora si diventava presto adulti, l'infanzia ci sfiorava appena ed eravamo subito coinvolti in un cammino spesso difficile ma carico di speranze.
        Come pietre di antiche città, si accumulano nella nostra vita i Natali lasciando ognuno una traccia non importa se non sempre capace di affiorare alla memoria. Segnano i passi del nostro cammino, i progressi e le delusioni. Segnano anche i posti vuoti a tavola, le partenze e gli arrivi.
        Ognuno ha il suo Natale 48 e non importa l'anno di riferimento, il segnapassi, l'ultimo prima di avviarsi nel cammino complesso della vita. Uno spartiacque, prima e dopo. L' importante è avere speranza che è la luce del futuro e credere che il prossimo Natale sarà migliore del precedente.

Natale 2011.