Bonefro.net Nicola Lalli
LA CULTURA DELLA VECCHIA BONEFRO

 

            Le note che sono andato scrivendo sinora hanno tentato di descrivere un paese (Bonefro com’ era tanti anni fa) oppresso dalla fatica, dall’ incertezza del futuro, spesso dalla povertà se non dalla miseria. Ciò può aver indotto a pensare a un paese che era dominato anche dall’ ignoranza : rozzo e arretrato. Insomma con gente da non rimpiangere, priva di cultura.
            Non è così. Da troppo tempo il Sud si trascina dietro complessi di inferiorità e di colpe che oltrepassano quelle manchevolezze- gravi come un pesante fardello- che lo incatenano all’ arretratezza. Ho la sensazione che il Sud abbia una cattiva vista panoramica ma ottimi primi piani: voglio dire che se le popolazioni  sono state incapaci di scrollarsi di dosso catene pesanti che ne hanno impedito un adeguato progresso sociale, nei singoli individui si ritrovano spesso qualità sedimentate da secoli di cultura e civiltà, a patto di saper vedere non superficialmente.
            Il popolo della vecchia Bonefro aveva- anche se con molti limiti- una cultura di tutto rispetto, in gran parte comune a tutto il Sud, in parte sua propria. Chi non conosce il Sud tende a farne un unico popolo accomunando gente molto diversa per carattere e per cultura. Indubbiamente molte caratteristiche sono comuni: la sfiducia nello Stato, la scarsa capacità di progresso sociale (pur con le dovute eccezioni), il progressivo impoverimento di risorse soprattutto umane causato dalla emigrazione, un rassegnato fatalismo. D’ altra parte, accomunano molte zone  la sensazione di un retaggio di civiltà antiche cumulatesi nell’ animo del Sud che puoi trovare nel contadino come nell’ intellettuale, una sorta di raffinatezza che travalica i modi palesi del vivere ma che si evidenziano nel parlare e nelle relazioni umane. Le ritrovi in chi è rimasto nei luoghi di origine e in chi vive da anni lontano: radici indelebili. Tante altre caratteristiche, tuttavia, diversificano notevolmente le varie parti del Meridione, come ingredienti comuni di una cucina che però ha trovato in ogni paese la sua diversità.
            Spesso i vizi riescono a galleggiare e mettersi in vetrina mentre le virtù tendono a rimanere nascoste. Quelle case non eleganti, quegli uomini con abiti spesso vecchi e rattoppati, quei ragazzi già precocemente sottomessi al bisogno, quelle vite che oggi ci appaiono tanto lontane, piegate dal lavoro e spesso dalla sofferenza  possono insegnarci molto: non solo a misurare e ad apprezzare i progressi fatti ma anche a valutare quanto si è perduto.
            Il grado di civiltà di un popolo può essere valutato con vari parametri. Oggi prevalgono quelli dell’ apparenza e della tecnologia: chi ne possiede maggiormente è ritenuto più avanzato. Sarebbe ingiusto disconoscere i vantaggi della tecnologia- figlia della conoscenza scientifica- ma sempre più affiora il dubbio sui limiti di questo parametro che tende a mettere in second’ ordine
valori e rapporti umani che ritenevamo inutili ma che iniziamo a rimpiangere. L’uomo misurato prevalentemente sulla base della tecnologia e delle sue conoscenze scientifiche può portare alla presunzione di dominio sulla natura e sugli altri esseri viventi, alla illusione di risolvere tutto con la materialità dei congegni che se hanno molto migliorato la qualità della nostra vita non hanno risolto i tanti problemi tra i rapporti umani e poco hanno contribuito alla felicità delle persone che solo in parte è legata alla soddisfazione dei bisogni materiali. Essi hanno anche dato all’ uomo un potere distruttivo pericoloso, illudendolo di poter dominare la natura. Allo stesso tempo hanno reso l’uomo più fragile: basta un cavo elettrico rotto per mandare in crisi una intera città. Cominciamo anche a chiederci che cosa resterà in un lontano futuro della nostra civiltà basata su congegni elettronici deperibili, su documenti fragili.
            L’uomo vive molto meglio di una volta, ha conquistato diritti importanti, la sua salute è meglio tutelata, il lavoro è meno pesante ma spesso si sente più solo e più infelice. Il protagonista intellettuale di un film di Olmi dice - forse esagerando- che bere un caffè con un amico è meglio che leggere cento libri. La cultura è fondamentale per la crescita dell’ individuo e della società. I libri sono gli attrezzi per allenare la mente, come in una palestra. Sapere conferisce potere. Come la palestra fortifica i muscoli ma non fa tutti campioni così i libri sono fondamentali ma non possono sostituire i rapporti tra le persone. Anche i tanti congegni dei quali ci serviamo ogni giorno sono importanti ma è necessario non farsi prendere la mano, non diventarne schiavi. L’ auto, il telefono, Internet ecc..: non sono i nostri padroni ma semplici strumenti che tuttavia rischiano di dominarci. Sempre di più, noto, la Medicina si sovraccarica di strumenti senz’ altro utili ma si rischia di trascurare il suo compito fondamentale: curare non la malattia in astratto, non il singolo organo ma l’ uomo malato. Sembra retorica ma è realtà. 
            Ci stiamo rendendo conto di aver rinunciato troppo presto ai rapporti umani, di aver sovrastimato la tecnologia sino a divenirne schiavi. La bravura di quegli artigiani che riuscivano a creare le loro opere con pochi attrezzi, l’esperienza antica dei contadini : non erano soltanto gesti di un lavoro umile. Era l’eredità di un apprendimento millenario, il lavoro che diventava frutto dell’ ingegno. C’erano nel lavoro agricolo e artigianale una progettualità e una strategia tramandate ma vivificate dalle necessità variabili. Il valore dei beni ( e spesso anche degli uomini) risalta quando lo perdiamo. L’artigianato di una volta ci appare non più banale ma prezioso. Il rapporto dell’ uomo con la terra poteva sembrare solo la rozza fatica per procurarsi il cibo: oggi sappiamo che era cura della terra sulla quale viviamo, era una parte della cultura umana. Curare la terra significava non solo procurarsi il cibo ma mantenerla viva. Oggi cominciamo a capire che cosa significhi l’abbandono delle terre, dei boschi, delle sorgenti. Suscitano in noi molta meraviglia le opere degli antichi: non riusciamo a capire come siano state costruite con pochi mezzi le piramidi o città come Machu Pichu: semplicemente, il nostro orgoglio tecnologico ci illude di avere l’ esclusività
del saper fare dimenticando che certi ponti romani durano più di alcuni ponti di oggi.
            Queste considerazioni- banali e sintetiche- mi sembrano necessarie per parlare della “cultura” e del grado di civiltà di Bonefro del passato. Quel piccolo popolo era formato da artigiani, qualche commerciante, qualche intellettuale ma soprattutto da contadini. Scarsa era la scolarità, modesta la lettura di libri e giornali. Pochi i contatti col mondo esterno, necessari sia per misurare se stessi che per aprirsi a nuove esperienze ed accrescere le conoscenze. Eppure era depositario di una preziosa “cultura”.
            Esistono varie forme di cultura. Possiamo distinguerne essenzialmente due: una  popolare, primaria, e una intellettuale. La  prima si sviluppa lentamente e va a depositarsi nel profondo di un popolo condizionando comportamenti e regole tra le comunità. Si forma poco a poco, quasi insensibilmente. E’ in un certo senso l’ humus fertile del terreno, un concime naturale che permette lo sviluppo della vita sociale. La seconda nasce dalla mente, si nutre di studio; è una parte nobile dell’uomo, gli permette di progredire. Uno degli strumenti fondamentali di questa seconda forma è l’ istruzione della quale la scuola è un mezzo importante. Non sempre chi studia diventa colto: ci sono molti laureati che sono del tutto incolti. La scuola fornisce un metodo ma deve essere il singolo a saperlo usare.  Tuttavia tutto ciò che ha prodotto la forma elevata di cultura deve nascere in un terreno fertile: esso deriva dalla cultura generale di un popolo, quella primaria. Voglio dire che da una cultura popolare diffusa e profonda – trasmessa quasi inconsapevolmente- nasce e si diffonde la cultura intellettuale. La letteratura è nata dal racconto popolare, dai tempi di Omero; la musica colta che chiamiamo classica è nata dalla musica popolare riprendendo forme e ritmi e spesso anche temi ( le famose Pastorali di Frescobaldi, Corelli, Bach, Hendel nascono dai suoni di zampogna dei pastori). E’ necessario, però, che la prima- quella popolare- sappia generare la seconda altrimenti, rimane sterile. Ci sono momenti felici nella vita di  un popolo nei quali la cultura di base, quella popolare, sa generare la forma più elevata. Nel nostro Sud – così carico di problemi, così restìo a emanciparsi da strutture mentali arretrate – si sono sedimentati millenni di civiltà che se non è più in grado di produrre da sola spinte innovatrici e non è più adeguata in un mondo profondamente trasformato, costituisce una base potenziale di avanzamento. Seppellirla- come un retaggio del quale vergognarsi e da abbandonare- significa rinnegare se stessi. Alcuni usi che sembravano sino a poco fa un freno al progresso oggi vengono rivalutati. L’ alimentazione mediterranea (espressione di una cultura popolare sedimentata nel tempo, figlia non solo di esigenze imposte dalle condizioni  ambientali ma anche di scelte lentamente selezionate e accumulate) è  ritenuta  dalla cultura intellettuale, cioè da studiosi,  la più idonea a mantenere una buona salute: la cultura “primitiva” e quella “intellettuale” hanno collaborato, l’una ha fornito all’ altra materiale di approfondimento e di conoscenza. Oggi ci stiamo rendendo conto che la fretta (la filosofia del “tempo è danaro”) peggiora la qualità della vita: impedisce i rapporti tra le persone, crea stress, alla fine finisce col fare un uso cattivo del tempo stesso. Sta prendendo piede lo “slow food”, si comincia a rimpiangere il piccolo negozio dove si comprava merce ma anche si parlava, si scambiavano notizie e sensazioni. Faremmo bene a rileggere il piccolo saggio di Bertrand Russel degli anni trenta: Elogio dell’ ozio. Ho già ricordato che i bonefrani di una volta passando davanti a chi era seduto avanti casa (chi si siede più avanti casa?) salutavano ancora alla maniera degli antichi greci. Ricordavo l’inizio di un dialogo di Platone, il Fedro. Socrate chiede a Fedro: Donde vieni ? A Bonefro si salutava: de ‘ndo’ vì? Oppure ‘ndo’ si ghiut’ ? O anche: ch’ fai? Nessuno si aspettava risposte precise, non era morbosa curiosità ma solo un manifestare il proprio interesse per l’altro. Infatti, si rispondeva: nd’ vu i’ oppure ch’ vu fa. Domande e risposte stereotipate ma socialmente importanti. Molti altri comportamenti erano tramandati da millenni. Ne cito uno tra i tanti. Ricordo quelli che passeggiavano in piazza discutendo. Spesso chi teneva la parola si fermava per sottolineare l’importanza di quanto affermava; gli altri (uno o due, mai in molti) si fermavano a loro volta e si rivolgevano attenti verso chi teneva la parola. Poi riprendevano a passeggiare lentamente per fermarsi nuovamente dopo un po’. Questo modo di discutere – passeggiando lentamente, fermandosi e poi riprendendo a camminare- era tipico dell’ antica Grecia, al tempo dei filosofi. Chi si comportava in questo modo si chiamava “agorazonta” , cioè uno che va a discutere in piazza passeggiando. Ho il ricordo di “agorazonti” sui due marciapiedi della piazza: due o tre amici che discutevano di politica o di altri argomenti. Ancora pochi anni fa un vecchio maestro di un altro paese mi ricordava che quando desiderava discutere approfonditamente andava a Bonefro. Ricordo le mie discussioni con Michele Iarocci non solo di politica ma di filosofia passando da Socrate e Marx o anche di religione e di etica. Quegli agorazonti, quelle persone che discutevano passeggiando e sostando erano padroni del tempo, di quel tempo che avevano deciso di dedicare alla discussione con amici. Quel modo di parlare passeggiando, rallentando, fermandosi era la punteggiatura di un periodo scritto: che sarebbe una pagina scritta senza punti, virgole ecc..?
            Se tutto questo non era esclusivo di Bonefro, alcuni aspetti del bonefrano ne caratterizzavano il comportamento. Pochi leggevano tuttavia chi leggeva – libri, giornali- diffondeva la cultura. Il bonefrano- il contadino, l’artigiano- era avido di conoscenza. Meravigliava, allora, che tanti di loro sapessero più di quanto ci si sarebbe aspettato. Inaspettatamente trovavi nelle case di gente umile alcuni libri. Ho imparato un po’ di musica trovando a casa nostra- non so come ci fosse capitato- un vecchio libro di solfeggio musicale e imitando l’ uso di voce e mani da un giovane ( Alfredo Paolucci, poi emigrato in Canada) che stava imparando a suonare il sax e veniva a bottega a trovare un amico, discepolo di mio padre. Non c’erano scuole vere e proprie- fuori delle elementari e del professionale- ma ogni casa ogni bottega e finanche la strada diventavano scuole. Il barbiere Luigi Tavone che aveva fatto parte della banda musicale di Bonefro insegnava un po’ di musica ai ragazzi che volevano imparare a suonare uno strumento. Non so dire come tanti contadini e artigiani conoscessero l’ opera lirica. Non c’era TV, pochi avevano la radio, credo che nessuno andasse in città a vedere un’opera (ma so di un artigiano amico di mio padre- il compare Gaetano- che andava a vederla al Savoia a Campobasso) eppure la sera della festa ascoltavano in molti e con tanta attenzione i pezzi d’opera suonati dalla banda. Ho conosciuto da ragazzo contadini che conoscevano bene la geografia o la storia e qualcuno anche la letteratura e citava Dante a memoria.
            Si imparava presto a rispettare gli anziani, a salutare. Si imparava il valore della vita, del danaro, della famiglia. Se questi ed altri valori erano diffusi, ogni comunità li adattava al proprio carattere.
            Il bonefrano aveva una forte personalità che lo caratterizzava – non sempre positivamente- rispetto agli altri paesi. Non aveva l’attitudine al commercio come la gente di S. Croce. Troppo geloso del senso anche esasperato della dignità ( a facc’ mbacc’ ) per rischiare e avventurarsi in qualche attività dall’ esito incerto. Il bonefrano detestava avere debiti, era nemico delle cambiali. L’ incertezza del raccolto lo aveva reso eccessivo risparmiatore. Tutto questo -  senso esasperato della dignità, disprezzo per i debiti,  timore dell’ azzardo- lo frenavano  nelle iniziative. E’ stata, credo, una delle cause di decadenza del paese malgrado fosse viva l’ attenzione costante verso il futuro proprio e dei figli. Il bonefrano non aveva nemmeno la vivace ironia della gente di S. Giuliano. Non sapeva ridere della vita. Prendeva tutto troppo sul serio, tutto doveva passare sotto le forche della serietà e seriosità. Era persona concreta, con i piedi per terra. Non aveva molta fantasia. Credo che non amasse raccontare ai bambini favole fantastiche e gioiose. Nei racconti versava la sua visione cupa della vita, finanche nelle nenie per addormentare i bambini ( u lup’ se  magnò la pecurella…). Non è un caso che a Bonefro i miti non ebbero successo. Essi sono la rappresentazione simbolica della vita attraverso la fantasia: in essi la realtà va a nascondersi nei racconti mitici. Non ho ricordo di una delle mascherate che si facevano a carnevale nelle strade che fosse ispirata a miti o favole. Si raccontava di briganti che si facevano giustizia. Lo stesso bandito Giuliano non era descritto come emanazione della mafia ma come un giustiziere, un difensore dei deboli. Il senso della giustizia sociale era condizionato spesso da una ideologia esasperata, dalla voglia di rivalsa a tutti i costi delle classi sociali più umili. Sopravviveva un residuo di ricorso alla violenza che emergeva quando fosse in gioco l’ onore e la dignità personali e della famiglia. Il  bonefrano era quasi orgoglioso della propria capacità reattiva  sino a volte all’ uso delle mani (e talvolta del coltello). I residui della violenza (viva e più diffusa nel passato più remoto) serpeggiavano in vari modi tra individui, nell’ ambito familiare e tra quartieri del paese: a lungo durarono le piccole lotte tra il Piano e il Rosello, ho ricordo di molte sassaiole tra ragazzi.
        Era molto spiccato nel bonefrano  il senso logico. Molti ragazzi erano particolarmente bravi in matematica. Viva era l’ attitudine “filosofica” con particolare sensibilità verso i problemi sociali. Non è un caso che già ai primi del novecento sorse un circolo socialista di operai e contadini ( per queste vicende, molto interessanti, rimando ai preziosi scritti di Michele Colabella). Forse questa notevole tendenza alla razionalità era alla base di una scarsa religiosità del bonefrano (dedicherò una nota a questo particolare aspetto).
        Un altro aspetto di quel mondo scomparso era la solidarietà. Era magari immersa ( e talora sommersa) in un chiacchiericcio che poteva apparire fastidioso e malizioso: tutti sapevano di tutti ed era inutile raccomandare di n-n’ t’ fa sepé i fatte è tè. La partecipazione al dolore ( tanta gente  andava a un funerale) poteva non sempre essere espressione di reali sentimenti. I sentimenti, del resto, rimanevano spesso nascosti o addirittura mascherati da atteggiamenti duri. La solidarietà, tuttavia, era viva. Non ti sentivi solo se eri in difficoltà. Trovavi un vicino propenso ad aiutarti, trovavi la vecchia che badava al tuo bambino se dovevi assentarti. Era frequente lo scambio di aiuto nel lavoro dei campi. Anche tra gli artigiani era frequente l’aiuto reciproco, prestarsi uno strumento. Era la solidarietà di chi conosce la precarietà ma anche di chi non si isola dagli altri e si sente parte di una società che esige il rispetto delle sue regole. Su queste basi era anche fondata la famiglia: un nucleo sociale solido sia pure carico spesso di regole rigide e oggi inammissibili, da tabù che oggi ci appaiono inaccettabili ( ma ogni epoca ha i suoi tabù). Oggi questo modello sociale si sta sgretolando sotto la spinta di diritti non sempre legati ai doveri e di una libertà che quando è eccessiva tende a impantanarsi nel caos.
   Cominciamo a volgere lo sguardo indietro con altri occhi. Finita in parte la voglia di rinnegare il passato, di cancellare le tracce di quando eravamo arretrati e chiusi; sazi del superfluo, timorosi di un futuro che speravamo sempre più luminoso e che comincia a sembrarci minaccioso e incerto, osiamo pensare che quel mondo dal quale a ragione volevamo fuggire –  che non può tornare, che non deve tornare- aveva aspetti positivi e può insegnarci qualcosa. Senza lasciarsi prendere dalla retorica, senza dimenticare i tanti aspetti di arretratezza, i soprusi sino alle violenze, dovremmo rivalutare non solo alcuni piatti che allora erano dei poveri e oggi – sazi di contraffazioni e adulterazioni- ci sembrano quasi un lusso ma riconsiderare anche alcuni fondamenti di quel vivere sociale.
    Sarebbe un male guardare a quel mondo come a un modello. Si tende addirittura a elogiarne aspetti senz’altro negativi. Un recente libro di una immunologa americana, Mary Ruebush è intitolato: “Lo sporco fa bene”. A Bonefro i ragazzi non amavano molto l’ igiene; la mattina si lavavano in fretta specie d’ inverno e ogni tanto le mamme dovevano acciuffarli e strofinare- tra proteste degli interessati- collo e orecchie. Ricordo che in terza elementare il maestro (Peppino Lalli) verificava la pulizia degli alunni, con un metodo infallibile: guardava dietro alle orecchie se c’era  u ruzz’. Lo sporco non fa bene ma quel saggio di una scienziata d’ America dove il bisogno di pulizia arriva ad eccessi vuole richiamare l’attenzione sui rischi di tutti gli eccessi, anche per la pulizia. Bisogna far giocare i ragazzi in luoghi non troppo puliti, afferma,  per attivare le difese naturali dell’ organismo: meno allergie e meno malattie. Noi non sapevamo nulla delle difese immunologiche ma giocavamo per strada senza troppe attenzioni all’ igiene.
    Una lezione particolare dovrebbe da quel mondo passato: porre un freno ai desideri e ai bisogni affinché non si trasformino da spinte evolutive a consumismo esasperato. Noi ragazzi eravamo già soddisfatti se a Natale ci veniva dato un mandarino o qualche fico secco; imparavamo presto a rispettare ogni piccolo oggetto.
     Oggi le regole nascono e sono subito sgretolate da altre sino a dubitare che possano esistere regole credibili; stiamo imparando che il lavoro è parte importante- anche se non esclusiva- della vita dell’uomo; che dobbiamo rivalutare il lavoro manuale; che non possono esistere diritti senza doveri, anche se una volta questi erano preponderanti rispetto ai diritti che erano privilegio per pochi. Il nostro Paese è cresciuto grazie proprio a quelle generazioni che credevano nel lavoro, nella famiglia, nel dovere; che sapeva pensare al futuro. 
     Non è semplice nostalgia ripensare a quei tempi senza vergognarsene ma senza esaltarli: i peccati dei poveri sono eguali nel mondo e forse anche le loro- spesso nascoste e misconosciute- virtù.
Rivolgersi ogni tanto indietro aiuta a capire le proprie radici, a misurare i passi fatti e anche a trarne qualche insegnamento, considerando che anche se non si torna mai indietro il benessere economico non è mai garantito per sempre.

Dott. Nicola Picchione